Se d’un tratto dalle storie di Stephen King sparissero gli allenatori di baseball, i bambini undicenni, i detective, gli studenti universitari squattrinati, i pagliacci, le famigliole felici, i professori di letteratura, i domestici? Se l’unico personaggio a muoversi tra le pagine fossi tu?
Orazio Labbate invita il lettore – scoraggiandolo a ogni pagina, a ogni rigo allarmandolo – nei luoghi di Stephen King, in terre in cui non è rimasta anima viva, solo il viavai degli spiriti: l’insediamento in un corpo non è che un accidente, tutti diventiamo fantasmi. Ecco, dunque, cosa riserva l’edilizia delle tenebre: fogne feroci da cui schiuma un profeta, il Diavolo; campi di granturco; cieli incontinenti; girasoli che sembrano “cotti in brodo”; una nebbia che ai vivi insegna tutto ciò che si può sapere della morte; caldaie che singhiozzano; finestre che si lamentano; grugniti di una scrofa; gemiti metallici. E maniglie, lettere, altalene, catene arrugginite perché la ruggine svela la violenza dell’eternità. Nel suo viaggio, il lettore dovrà a volte strisciare, a volte genuflettersi: è un fedele al cospetto di un Dio che non salva i suoi agnellini, ma li manda al macello.
Come si fa a passare per l’Averno senza risvegliarne gli abitanti? Nessuna fede e nessuna scienza aiutano il viaggiatore a eludere la dannazione, ma forse un modo per fuggirne pure ci sarebbe, ci dice con il suo stile gotico e prezioso Orazio Labbate: il godimento solipsistico dell’incontro con i propri demoni, la scrittura stessa come demonologia. Un viaggio, quindi, il cui rischio più orrorifico è la solitudine, come questa ci esponga senza difese alla minaccia di diventare assassini noi stessi.